C’erano due neuroni o forse tre nella mia testa dopo la consegna delle chiavi.
Uno era maschio, per così dire.
L’altro no, per contraddire.
Venne loro data una consegna, un foglio nel quale c’era scritto come lavorare. E lessero.
Il primo disse: ho capito, bene! si farà così e cosà, facile.
L’altro rimase sul divano.
Intanto la macchina attendeva a folle. Motore caldo, carrozzeria fiammante, due dadi di peluche che non avevano mai rotolato pendenti sotto allo specchietto.
Il primo neurone disse al secondo: alzati, dobbiamo lavorare.
Il secondo gli rispose: sì, ma prima giochiamo a nascondino.
Aspetto sdraiato sul cofano all’autosalone e taglio erba nella speranza che ricresca.
Aspetto te, camminando avanti e indietro. A volte immaginando che ogni mattonella sia come la sola cosa reale ed io un equilibrista sul tetto del mondo.
Aspetto seduto su una sdraio avvelenata, sul ciglio della collina da dove si vede il mare. Sotto gli ulivi. Pieno di zanzare.
Aspetto contando i petali dei fiori in un valzer americano dove sono sia cowboy sia indiano. Dove sono vestito con un abito leggero ed ho sempre una pistola nascosta e pronta.
Aspetto in piedi tra gli altri pilastri minerali intanto che una palla rimbalza e la figura di una giovane donna cammina sulla sabbia.
Aspetto la mano di mia madre che venga a carezzarmi mentre non prendo sonno.
Aspetto e sono forse quello che sta ancora nascosto.
Aspetto e sono forse quella che è rimasta.